Nella mia carriera professionale, costellata talvolta da dubbi e mal di pancia di natura "etica", ho spesso avuto qualche perplessità circa l'idea che i capi "debbano" motivare i loro collaboratori. Lo so, sto enunciando un'eresia manageriale. Permettimi di chiarire meglio il mio pensiero: 1) Se un mio collaboratore non è motivato, mi devo immediatamente porre una domanda: "ho fatto qualcosa di sbagliato?". Questa è la pietra angolare da cui parte ogni buon ragionamento manageriale. Credo che anche tu sia d'accordo. 2) Se la risposta è positiva, allora cambierò il "mio" atteggiamento; se invece la risposta è negativa, perché mai dovrei sforzarmi di cambiare il "suo" atteggiamento? Sono forse un super eroe? 3) Della "sua" scarsa motivazione voglio farmene un cruccio esistenziale? La vita è sua. Posso ascoltarlo, cercare di comprenderlo, questo sì; ma da un punto di vista dell'etica classica, che a volte sarebbe il caso di tornare a studiare, la questione non è affar mio: "it's not my business". Prima di tutto, occorre separare ciò che dipende da me da ciò che non dipende da me. Se perdo di vista questo principio etico, mi ritrovo responsabile di troppe cose, e la mia vita da manager diventa un inferno. 4) Questa comprensibile attenzione alla motivazione delle persone dovrebbe essere controbilanciata da una maggiore enfasi sul potenziamento della responsabilità individuale. Il mondo del lavoro è cambiato. Il ruolo del "leader" e quello del "follower" sono interconnessi e ciascuno deve metterci il suo 50%. "It takes two to tango". 5) Vuoi essere un buon leader? Trasforma la tua organizzazione in un ambiente dove le persone "desiderano" starci, non invece in un luogo dove le persone ci "devono" stare. 6) E il tuo collaboratore? Vuole essere un buon follower? Fammi dire due cose anche a lui... Caro Collaboratore, impegnati. Aiuta i colleghi e il responsabile a raggiungere gli obiettivi del tuo team. Sviluppa una mentalità da lavoratore autonomo. Agisci "come se" l'azienda fosse tua. Spegni le luci, quando non servono. Impara a leggere i bilanci, così hai un'idea più precisa di come siete messi. Pensa a come risolvere i problemi. Non lamentarti. Ma soprattutto: se senti che non hai più voglia di stare nella tua azienda, perché non te ne vai? Lo so, adesso mi dirai che è per via del mutuo, della famiglia, dei figli, ecc. Secondo te, non le so queste cose? Io ti sto dicendo un'altra cosa: se hai deciso, come a scuola, di non prendere più di 6, guarda che va bene! Ma sotto il 6, perché? Hai davvero bisogno di un capo "super eroe", per capire che il tuo "scazzo" dipende anche da te? Dal tuo carattere? Dalla tua storia personale? Ti auguro una buona serata, caro Manager. ALBERTO AGNELLIConsulente di Sviluppo Organizzativo ed Analista Transazionale, Alberto supporta le persone, i gruppi e le aziende nel miglioramento del benessere personale ed organizzativo. Appassionato di Tango Argentino (si sussurra che sia insegnante) e del Total Immersion Swimming, vive a Milano ma si sente cittadino del mondo. Con E. Smith è fondatore di "Tango For Business".
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Notate la contraddizione, vero? Non si può essere fedeli ad un'azienda, che ti lascia a casa dopo sei mesi; poi ti mette in pausa per due; e magari ti riassume, in attesa di un'ennesima pausa. - Sarebbe come dire ad una persona: "Ti amo, ma sappi che ci lasceremo fra 6 mesi. Se ti impegni, può essere che ci si ritrovi più avanti. Ma non posso garantirtelo, perché il mondo là fuori è pieno di opportunità e non me la sento di vincolarmi. Ci tengo alla mia libertà. Dai, ora però rilassati e amiamoci come se non ci fosse un domani....". C'è qualcosa di profondamente malato in questo sistema. Più che un contratto a tempo determinato, è un amore "interruptus", per non dire un'altra cosa... - Il lavoro fisso è stato trasformato in lavoro precario, per motivi ben noti a tutti. Tuttavia nessuno poteva prevedere l'arrivo del Corona Virus. Ah, benedetto sia tu, Virus, e il frutto della tua T-Spike! Qualcosa di imprevedibile sta inquietando le aziende: i giovani se ne vanno, oppure non si presentano ai colloqui. Forza, giovani! Potreste aprire una stagione straordinaria nei rapporti tra imprese e lavoratori, una fase in cui sarete voi a intervistare i Direttori del Personale: "Come vede il suo futuro, caro Direttore del Personale?" "Quali sono i valori umani e professionali espressi daI vostri manager?" "Per quale motivo dovrei offrire le mie competenze proprio a voi?" "A parte il fee, quali esperienze di crescita intendete propormi?" Si noti che non abbiamo usato la parola stipendio, ma "fee". Il prossimo futuro, infatti, vedrà la presenza nelle organizzazioni di molti giovani con un "mindet" da liberi professionisti e solo a quel punto, i contratti saranno davvero stipulati tra persone adulte e responsabili. Qui parliamo ovviamente di contratti "psicologici", perché quelli giuridici arriveranno comunque in ritardo rispetto alla trasformazione della società già in atto. Che meraviglia! Perchè come diceva Giorgio Gaber, qui da noi "c'è un'aria che manca l'aria...". - I pennini sismografici della sociologia registrano infatti i primi sussulti di una rivoluzione che potrebbe abbattersi presto sulle imprese. - I giovani "Z" cercheranno sempre di più occupazioni che garantiscono lo smart-working (attenzione: non il remote-working). Già assaporo questo colloquio: "Ma offrite lo smart-working"? "No, però abbiamo l'auto aziendale!" "Avete programmi di formazione e manager che mi possano ispirare sul piano umano e professionale? "In che senso?" "Va bene, forse ci risentiamo più avanti, quando avrete finito di svalvolare... Comunque, grazie". Sentite il passo deciso della Nemesi, che porterà nuova linfa vitale in quelle Direzioni del Personale dove la flessibilità è stata per anni usata come strumento di sfruttamento? Io sì. Basta avvicinare l'orecchio al sismografo... Lo stesso principio vale per le organizzazioni, che sono invece sistemi "complessi", il cui funzionamento non risponde sempre a manovre dirette di controllo. Ormai lo sappiamo da parecchi anni. Ci chiedono di formare i futuri leader delle organizzazioni al "paradigma della complessità" (cool, isn't? Figata!). Poi quando tornano alla loro ruotine, si ritrovano (giustamente) immersi nella produzione quotidianana di report, analisi e statistiche che servono a mantenere la "nave" sulla rotta desiderata. - K. Weick ha condotto importanti ricerche sulle cosiddette "organizzazioni ad alta affidabilità" (HRO). Tra le caratteristiche "culturali" di queste organizzazioni troviamo la tendenza a "prendere sul serio" ciò che accade, senza ricorrere ai soliti schemi interpretativi: “le previsioni e i piani creano punti ciechi...".
Ciò si deve a due fattori:
La turbolenza esterna spinge le organizzazioni con un numero significativo di persone a modificare spesso gli organigrammi. Nei "piani alti" (in effetti, la Direzione X, Y, Z è sempre stata storicamente situata ai piani alti...) si lavora alacremente per ridisegnare i processi, le responsabilità, i nuovi riporti funzionali. Gli altri attendono invece impazienti il giorno dell'avvento: - "Non ci capiamo più nulla. Siamo in attesa della "nuova organizzazione. E' un momento di grande confusione".
Ad un certo punto, ecco la "fumata bianca": la "nuova organizzazione" è pronta per essere comunicata ai collaboratori. Il compito del Board è esaurito. Da questo momento in avanti, la palla passa agli altri manager, la cui responsabilità sarà quella di aiutare i loro team a "leggere" in modo corretto la nuova mappa organizzativa. - Questo processo, per quanto in apparenza razionale, ha tuttavia delle contro-finalità:
" Abbiamo spiegato la nuova organizzazione ai manager, eppure le cose non cambiano!" Già, secondo voi, perché le cose non cambiano? Cristo nasce nudo. La sua rappresentazione iconografica lo ritrae nella più assolutà povertà. Nasce alla periferia della città, in un luogo modesto e senza fronzoli. La mangiatoia è il simbolo per antonomasia della Natività. Al di là degli aspetti religiosi, mi colpisce tuttavia il rapporto tra il Natale e la figura di Cristo che perfora con la sua nudità la "maschera" con la quale ogni giorno ci proteggiamo dal rischio di essere "contagiati" dalla presenza dell'Altro. Non sto parlando del Covid, ma di un virus ancora più pericoloso: l'amore e il rispetto per l'altro. Sì, perché se io guardo l'Altro nella sua nudità, se lo ascolto per davvero, posso riconoscere in lui la mia essenza di essere umano. E quindi scoprire che io e lui siamo uguali, seppure diversi. Allora, chiediamoci: siamo capaci di essere "autentici" nelle organizzazioni in cui lavoriamo? Siamo capaci di essere "nudi" e dire la verità, per quanto talvolta questa possa essere scomoda oppure semplicemente disarmante?
Questo significa essere "nudi". Questo significa essere "coraggiosi" nella relazione con l'Altro. I più recenti contributi sulla leadership ci parlano della necessità di aumentare la qualità e la profondità delle relazioni in azienda. Si parla di "courageous conversations", cioè di sapere imbastire dialoghi diversi, intimi e in grado di superare l'azzimata facciata di tante conversazioni che avvengono nei contesti professionali. Una riflessione laica sul Natale potrebbe partire proprio da questo punto: sono capace di rimanere in contatto con la mia essenza, con la mia nudità nonostante i titoli, i ruoli e le onorificenze che esibisco davanti agli altri? I risultati di un'organizzazione sono in parte determinati dalle caratteristiche manageriali di coloro che ricoprono i ruoli più alti (top management team - TMT) inclusi gli Amministratori Delegati (CEO). Si tratta della "Teoria dei Livelli Superiori", che è al centro di numerose ricerche internazionali in ambito organizzativo ed è praticamente sconosciuta in Italia (Upper Echelons: The Organization as a Reflection of Its Top Managers - D. Hambrick, P. Mason - 1984 Academy of Management Review). Detto in altri termini, se vogliamo capire le strategie, i processi, la cultura e i risultati di un'organizzazione, dobbiamo studiare anche gli atteggiamenti e comportamenti delle persone che ricoprono i ruoli più alti della gerarchia. Ovviamente, non è l'unico fattore da prendere in considerazione. Oggi sappiamo che gli stessi vertici sono influenzati dall'andamento del mercato, dai competitors e dalle dinamiche organizzative interne. Però è meglio ricordarcelo, soprattutto se vogliamo comprendere alcuni apparenti paradossi che riscontriamo nelle aziende. Siamo schiacciati su una visione di breve periodo. Guardiamo questi dati, visto che il futuro riguarda certamente tutti noi, ma in particolare se ricopriamo il ruolo di CEO oppure Direttori di Funzione (in particolare HR e Formazione/Sviluppo Organizzativo). "In 1964, a company on the S&P 500 had an average life expectancy of 33 years. This number was reduced to 24 years in 2016 and is forecast to shrink further to 12 years by 2027". (Forbes) Quindi, le organizzazioni possono estinguersi e ciò è vero anche per la vostra azienda
In un recente rapporto di PWC (22nd Annual Global CEO SurveyBase: global respondents 2019=1.378 - 2019), emerge che l'80% dei CEO è fortemente preoccupato di questo divario, vero e proprio "collo di bottiglia" strutturale. Permettetici ora un affondo polemico. Sulla base della nostra esperienza, qualcosa non torna:
Semmai, è vero il contrario, più si sale in alto nella gerarchia aziendale, più si riscontrano disturbi egoici della personalità e meschini interessi privati
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AUTORIAlberto Agnelli Archives
May 2022
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