Basta aggiungere il termine "remote" è il gioco è fatto! Dal Covid in poi, si sono scatenate le proposte formative per le aziende: - Remote leadership - Remote public speaking - Remote meeting - Remote management Il tutto ovviamente condito dalla sempiterna parola "gestione" e l'aggettivo "efficace". I risultati di questa orgia linguistica sono a dir poco esilaranti. Basta consultare internet per rendersene conto. Titolo del corso: «Remote Leader» Argomenti: - Sviluppare una leadership efficace - Costruire relazioni di fiducia - Coltivare l’empatia - Riadattare il proprio metodo e trovare il proprio stile - Cogliere «malesseri» e bisogni: - Dare e ricevere feedback - Comunicare in maniera chiara, efficace, puntuale Caspita, quante novita! Ovviamente questi corsi esistono, perché esistono le aziende che li acquistano. Anzi, per essere precisi: esistono questi corsi, perché sono "acquistati" dalla Direzione del Personale. Domande innocenti:
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"Ho imparato molte cose lavorando con voi, quindi alcune attività non le fatturerò...". Sì, è andata proprio così.Una giovane brillante e intraprendente professionista ci sta aiutando a portare avanti la nostra missione professionale in una fase di profondo cambiamento del nostro lavoro e ha capito un principio fondamentale: "Non voglio essere soltanto pagata, voglio crescere. E se cresco, ci guadagneremo tutti". Quanto è diffusa questa mentalità nelle organizzazioni?
Perchè è un'eresia? - Perchè spesso non vengono premiate le persone che vogliono crescere - Perchè le persone guidate da una forte "motivazione interna" sono trattate come tutte le altre persone "normali" - Perchè spesso "fare crescere le persone" è soltanto uno slogan - Perché se le persone crescono "troppo", abbiamo paura di perdere il controllo su di loro - Perchè per i "best performers" il denaro non è tutto E' arrivato il momento di inventare nuovi sistemi di rewarding! Il nervo scoperto delle nostre aziende Il disagio silenzioso di cui nessuno vuole parlare C'è troppa ignoranza, stigmatizzazione e vergogna intorno ad un aspetto fin "umano, troppo umano" della nostra vita, che si vorrebbe invece lasciare fuori dal mondo della "performance". Il modo in cui trattiamo le persone in difficoltà, i più fragili, quelli "diversi" da coloro che pensano di essere "normali" (escluso lo scrivente, beninteso!) dice qualcosa di fondamentale su cosa succede nelle aziende e più in generale sul livello della nostra civiltà. Il sondaggio “Workforce View 2019” di Adp Italia, che si occupa di consulenza per la gestione delle risorse umane, conferma quanto stiamo discutendo da qualche giorno. "Se tu avessi problemi di salute mentale, sul posto di lavoro con chi ne parleresti?".
La Direzione del Personale e i manager ne escono a pezzi. Nel sondaggio si esamina anche l’interesse delle singole aziende rispetto ai problemi di salute mentale. Il 32,50% dei lavoratori intervistati dichiara che la propria azienda non appare interessata alla salute mentale dei propri dipendenti. Il 36,9 afferma che l’azienda è interessata solo superficialmente. Soltanto 8 lavoratori su 100 sostengono che l’azienda appare molto interessata. Quanto lavoro c'è da fare! Esistono alcuni Paesi decisamente più avanzati del nostro in materia di "mental health in the workplace" e nei quali HR ha già da anni impresso una svolta cruciale al proprio ruolo, passando da "Controllore" delle risorse umane a "Fornitore" di servizi integrati per la persona. Occorre guardare a quelle esperienze se vogliamo affrontare questo tema in modo professionale dato che - come visto nei precedenti post - esso ha anche un impatto notevole sulla profittabilità delle imprese. Queste sono le linee da seguire per sviluppare una corretta politica di gestione e prevenzione del disagio mentale in azienda:
Se vi state chiedendo: "ma nella mia organizzazione non siamo pronti", allora è il caso di iniziare subito. Non si è mai abbastanza pronti per trattare questi argomenti, quindi lasciamo gli alibi da parte e mettiamoci al lavoro. Prima lo fate e prima raccoglierete i frutti di queste iniziative. Il profitto è conseguenza del benessere, non il contrario. L'argomento in Italia è delicato e da qualche giorno stiamo tentando nel nostro piccolo di rompere il muro di silenzio che è stato innalzato nel corso degli anni. Vogliamo ridare dignità a tutti coloro che ne soffrono oppure ne hanno sofferto in passato. Vediamo i "numeri". Già, perché senza numeri, gli scettici e i cinici che appestano l'atmosfera relazionale delle organizzazioni, non si sentirebbero mai chiamati in causa ad occuparsi di questo tema. E anche laddove i numeri fossero disponibili, ci sarebbe comunque una "resistenza culturale " da superare, di cui parleremo prossimamente. In ogni caso, la situazione in UK fotografata da un rapporto di Deloitte su salute mentale e lavoratori è implacabile: - Prima del COVID, otto persone su 10 avevano avuto problemi di salute mentale e citavano il lavoro come fattore scatenante, il 44% dei giorni di malattia era dovuto a stress, depressione o ansia legati al lavoro e il costo dell'assenteismo per i datori di lavoro era di 45 miliardi di sterline - Dopo il COVID, sulla base dei dati governativi, il livello di stress psicologico nella popolazione è passato dal 20.8% al 29.5% , soprattutto in coincidenza dei lockdown nazionali ed è plausibile immaginare che sia salito di conseguenza anche quello già presente nelle aziende Dunque COVID significa anche disagio mentale, causato da: - Impoverimento delle relazioni sociali - Nuove ruotine di lavoro legate allo smart-working a cui pochi sono abituati - Il ritmo lunedì-venerdì dei lavoratori dipendenti improvvisamente spazzato via Il problema dunque esiste e va affrontato. Si tratta ora di capire cosa possono fare i manager e in generale le persone di HR per gestire questo tema in azienda. Il Covid 19 ha colpito la vita di molte persone. Il nostro sguardo, rivolto tanto al benessere organizzativo quanto a quello personale, sollecita una domanda: cosa è cambiato davvero in questo lungo periodo di distanziamento sociale e smart-working? Le priorità sono rimaste le stesse? Cosa è successo nei luoghi di lavoro? Qual è stato l'impatto del Covid sulla nostra salute mentale?
In alcuni paesi del Nord Europa, le organizzazioni e in particolare il mondo dell'HR è già impegnato nella progettazione di servizi a favore del benessere individuale: sportelli di ascolto, counseling, formazione al management sulle tematiche relative al disagio mentale. E in Italia? Esiste nelle nostre aziende la possibilità, prima di tutto "culturale", per parlare di ansia, stress, depressione al di fuori dell'ambito strettamente medico e soprattutto senza pregiudizi? Voi cosa ne pensate? Amore, dono e feedback. Se c'è qualcosa che merita di essere esplorato quando parliamo di feedback, al di là degli aspetti comportamentali, è la "qualità" delle nostre conversazioni con gli altri. ll feedback, anche leggendo i vostri commenti sui precedenti post, spesso diventa un giudizio, una critica, ferisce anzichè nutrire e ciò è esattamente il contrario del feedback.
Purtroppo alcune conversazioni non sono "nutritive", non generano crescita, ma anzi addirittura la bloccano.
Si dice spesso che il feedback sia un dono. Ed è vero: se vogliamo che il feedback diventi un'occasione di sviluppo personale e professionale, il mio atteggiamento deve essere orientanto verso il dono.
“La gentilezza delle parole crea fiducia. La gentilezza di pensieri crea profondità. La gentilezza nel donare crea amore.” Lao Tse Allora, per quanto eversivo possa sembrare questo tema all'interno delle organizzazioni, dobbiamo avere il coraggio di chiederci: qual è il mio rapporto con l'amore? Seguendo questa pista, arriveremo al cuore del nostro discorso e capiremo il vero motivo per cui alcune persone, pur sapendo cosa sia "tecnicamente" il feedback, in realtà non sanno darlo e tantomeno sanno riceverlo. Caro manager, insegnante, genitore, parente, collega, partner o chiunque tu sia:
Dietro queste domande c'è la questionde del "feedback". La lingua italiana deve trovare una formulazione molto più articolata della lingua inglese, per arrivare a cogliere il significato profondo, il "cuore" del feedback. Sono tanti i fattori che influenzano la capacità di dare un feedback. Uno di questi è il linguaggio, cioè le parole che usiamo. Ringrazio un lettore dei nostri post per avere sollevato la questione. Le neuroscienze ci vengono in aiuto. La neurochimica delle nostre conversazioni cambia radicalmente se uso le parole giuste oppure quelle sbagliate. Possiamo avere conversazioni negative (cortisol-producing) e conversazioni positive (oxytocin-producing) e le tracce di questi ormoni hanno tempi diversi di permanenza nel nostro sangue. L'ossitocina scompare molto più rapidamente del cortisolo. Ricordiamo molto più a lungo le parole che ci hanno ferito rispetto a quelle che ci hanno fatto stare bene. Sulla rivista Harvard Business Review nel 2014 è stato pubblicato un articolo che presenta alcuni dati di ricerca sul potere evocativo del linguaggio. Avevamo bisogno della HBR per convincerci che comunicare efficacemente fa la differenza? Sì. Ma siamo sicuri che siamo adeguatamente formati su questo argomento? Vi lasciamo con una nota di ottimismo: no In un mondo sempre più VUCA, una richiesta ricorrente che arriva dal mondo aziendale è quella di aiutare i manager a sviluppare il cosiddetto pensiero strategico, risorsa cruciale per plasmare il futuro del business ma anche della nostra vita personale. Raramente però si riesce a dare una risposta concreta che vada oltre il corso di formazione dalla durata più o meno lunga. La ragione è molto semplice, ma si fatica ad ammetterlo. Non possiamo infatti sviluppare il pensiero strategico semplicemente ricorrendo ad un singolo momento formativo. E' necessario un percorso anche piuttosto lungo, in quanto le competenze chiave presenti nel pensiero strategico sono numerose. Purtroppo qui emergono i limiti di molte aziende, indipendentemente dalla loro dimensione, in particolare: 1) volere ricercare una soluzione stile fast-food per sviluppare questa competenza cruciale 2) essere ossessionati dai risultati finanziari di breve periodo, aspetto che ovviamente impedisce al sistema organizzativo di attrezzarsi per coltivare un adeguato numero di manager capaci di immaginare il futuro E' arrivato il tempo di ripensare in maniera radicale la formazione aziendale e investire più tempo e risorse nella costruzione di un vero e proprio "think-tank" in grado di coltivare i manager del futuro. Se pensate che tutto ciò sia "utopistico", allora forse stiamo già pensando in modo non strategico... L’OMS, a seguito di una ricerca effettuata sui lavoratori, ha sostenuto che circa il 70% di questi ammette di soffrire di mal di schiena a causa dello smart working. A ciò si aggiunge mal di testa e problemi alla vista, poiché spesso siamo costretti ad inventare postazioni di lavoro poco ergonomiche. Dopo un anno di Covid è importante rendersi conto che lavorare in modo “smart” comporta un rischio per la salute. Quindi non esiste soltanto lo smart working, ma anche il digital well being, il benessere di chi lavora da remoto. Cosa possiamo fare? Dobbiamo avere cura della nostra postura. Era importante prima della pandemia e ora lo è ancora di più. L’essere umano è stato progettato per muoversi, non per restare seduto ore e ore davanti a un pc. Il nostro corpo è sempre più sottoposto a tensioni e contratture muscolari. La sedentarietà sta dilagando e aumentano i problemi di concentrazione mentale. Due contromisure da adottare subito:
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AUTORIAlberto Agnelli ArchivesCategories
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