Facciamo una consulenza di buon livello quando il cliente vede in noi non solo un professionista affidabile ed esperto, ma anche un’opportunità per scoprire soluzioni che prima non conosceva. Quando colleghiamo le caratteristiche di un prodotto oppure di un servizio ad una esigenza specifica del cliente; oppure quando lo supportiamo nell'analisi di un problema per lui molto importante: ebbene, in questi casi il ruolo di vendita cambia, evolve e vira verso ciò che possiamo più propriamente chiamare ruolo di consulenza. Il consulente commerciale affronta la vendita con una impostazione strategica molto chiara, che potremmo definire di forte orientamento al problema del cliente. Questa è l’essenza di una consulenza di valore. Dunque possiamo dire che esiste una notevole differenza fra essere “consulente commerciale” ed essere “commerciale consulente”. Si tratta di un’interpretazione del proprio ruolo che nel primo caso mette l’accento sulla consulenza; invece nel secondo caso, prevale in primo piano l’interesse del commerciale e non quello del cliente. Il consulente commerciale è un professionista veramente attento ai bisogni delle persone, non lo fa “per finta”. Sa ascoltare il cliente in maniera attenta. E’ in grado di raccogliere le informazioni fondamentali e poi costruire un'offerta che sia quanto più vicina alle sue esigenze. Il consulente è soprattutto anche colui che, in ogni circostanza, mostra onestà e integrità. Questa attitudine viene tradizionalmente identificata con la formula negoziale “win-win”, cioè “io vinco-tu vinci”, ovvero: “se ti aiuto a risolvere un tuo problema, allora otterremo entrambi un beneficio”. Quando le cose vanno in questa direzione, si parla anche di generare valore, un’espressione che ritorna spesso nel mondo aziendale. Generare valore significa vincere insieme. Perché il cliente vince? Perché acquista un bene oppure un servizio grazie al quale riesce a far fronte ad una sua esigenza personale. E chi svolge lavoro di consulente commerciale? Anche lui deve badare propri obiettivi, oppure come si suole dire, deve portare risultati. Ma è questo il punto cruciale. I risultati si possono ottenere e consolidare nel tempo, se siamo stati capaci di concentrarci sui veri obiettivi del cliente. Detto ancora più esplicitamente. Per fare vera consulenza, devi crederci fino in fondo. Quanto più il commerciale crede nel valore del metodo consulenziale, maggiore sarà la ricaduta positiva sullo stile di vendita. Se crede i certi princìpi consulenziali, allora risulterà sincero, efficace e in grado di orientare in modo costruttivo il comportamento del cliente. Viceversa, se il professionista pensa che il proprio ruolo consiste nel vendere a tutti i costi, il risultato è che si focalizzerà sui suoi obiettivi e sul suo prodotto, perdendo di vista l'altro. Potrà anche forse raggiungere il risultato della vendita una tantum, forse nel breve periodo; ma in realtà senza una vera relazione personale e senza consulenza diventerà poco probabile fidelizzare il cliente ed aiutarlo nei processi decisionali più complessi. ALBERTO AGNELLIConsulente di Sviluppo Organizzativo ed Analista Transazionale, Alberto supporta le persone, i gruppi e le aziende nel miglioramento del benessere personale ed organizzativo. Appassionato di Tango Argentino (si sussurra che sia insegnante) e del Total Immersion Swimming, vive a Milano ma si sente cittadino del mondo. Con E. Smith è fondatore di "Tango For Business".
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Sappiamo che non esiste un unico metodo per vendere. Si tratta di riconoscere che con ogni cliente l’obiettivo è riuscire a stabilire una relazione personale che faccia la differenza. La relazione di vendita ci piace pensarla come una forma di conversazione, che noi stabiliamo tra persone con obiettivi diversi. La parte diciamo soft di questa relazione é fatta di emozioni, intuizioni, sensazioni di simpatia ed anche antipatia. La parte più razionale, più concreta riguarda le motivazioni d'acquisto, il prezzo, ecc. La relazione con un cliente può essere molto breve, ma può anche durare parecchi anni. Quando una relazione con un cliente si protrae nel tempo, allora diventa una storia in cui convivono diverse componenti: la curiosità, l'interesse, la stanchezza, la noia, l'entusiasmo, ma a volte, invece, il disagio, la delusione. Un miscuglio di emozioni e componenti in cui gli obiettivi possono cambiare di volta in volta, sia per cliente e sia il venditore. Per instaurare un rapporto autentico fin dai primi incontri, la scelta che possiamo fare come commerciali è tra dare un servizio e essere al servizio. Nel primo caso, il commerciale recita una parte che può magari avere imparato più o meno bene, però resta pur sempre il pezzo di una trama. La sua azione sarà superficiale anche se potrà avere raccolto tante informazioni. Nel secondo caso, si tratta invece un’azione totalmente differente. E’ come se fossimo animati da una corrente motivazionale decisamente molto più forte. Chiaramente vogliamo vendere un prodotto o un servizio, ma essere al servizio si colloca ad un livello di intensità emotiva molto più alto: significa avere una visione che rende profondamente significativo quello che noi stiamo facendo. Non è recitare una parte, ma è entrare nel proprio ruolo con convinzione. E ciò infonde maggiore credibilità ed autorevolezza. Usando una metafora calcistica: se il mio obiettivo è dare la palla al mio compagno di squadra, è un conto; se io però scendo in campo con l'idea che l'obiettivo sia quello di vincere la Champions League, allora anche quello che faccio, ogni singola mossa che farò all'interno di una partita, sarà sicuramente molto diversa, quindi anche gli scambi con quel compagno. Se siamo immersi in una conversazione autentica con il cliente, non rischiamo di “andare in automatico”: Il prodotto/servizio è sempre lo stesso, ed io lo conosco sicuramente bene; eppure quello che fa la differenza è il modo in cui traduciamo le caratteristiche tecniche del prodotto/servizio per quel particolare cliente, per il suo profilo specifico di esigenze. ALBERTO AGNELLIConsulente di Sviluppo Organizzativo ed Analista Transazionale, Alberto supporta le persone, i gruppi e le aziende nel miglioramento del benessere personale ed organizzativo. Appassionato di Tango Argentino (si sussurra che sia insegnante) e del Total Immersion Swimming, vive a Milano ma si sente cittadino del mondo. Con E. Smith è fondatore di "Tango For Business". Accumuliamo tante cose inutili nelle nostre case. Poi le spostiamo in cantina e nei solai. Dopo di che, quando lo spazio è saturo, arriva il momento di fare pulizia e andare in discarica. Di solito il giorno preferito è la Domenica. E il processo ricomincia daccapo. - Accumuliamo e svuotiamo. Gli accumulatori "seriali" si fissano sulla prima fase; quelli meno nevrotici riescono invece di tanto in tanto a "svuotare". Lo stesso meccanismo di accumulazione (in inglese: "cluttering") vale per le fotografie scattate con gli smartphone: "Ora che sono finite nella memoria virtuale, che te ne fai"? E i file che si accumulano esponenzialmente nel tuo pc? Tra copie generate da softare di "accumulazione seriale" (es. I Tunes per gli utenti Mac); periodici backup, perché il rischio di perdita è alto; e file "temporanei" (un altro mistero dell'informatica: se sono temporanei, perché vi ostinate a restare tra i piedi?) che si moltiplicano senza requie: ebbene, tutto sembra concorrere ad una crescente entropia del sistema. - Vestiti, scarpe, oggetti di pessimo gusto, regali inutili, appunti, copie di documenti fiscali (aspetta, quelli tienili, non si sa mai...): arriva il momento di doverli buttare via. Lo stesso processo vale per le questioni che ingolfano la nostra mente e la nostra anima. ⋆⋆⋆ "E come ci sentiamo dopo?" "Più leggeri, più puliti" "Ma stiamo parlando del decluttering?" "Sì. In inglese suona fighissimo. Ma tu chiamalo come vuoi. Ciò che conta è che hai raggiunto il punto di evacuazione..." "Punto di evacuazione? Quello indicato sui cartelli delle aziende per eventuali emergenze? "Anche. Ma non solo. C'è evacuazione ed evacuazione..." "Forse ho capito a cosa alludi. Ma non è molto "fine" come termine da usare su Linkedin!" "Allora chiamalo pure decluttering, se ti fa sentire meglio. Tanto il concetto è lo stesso...". "Bene, vi abbiamo presentato il progetto. E ora, qual è il prossimo passo?" "Adesso lo condividiamo internamente e poi ci risentiamo..." Questo il "refrain" che sentiamo sempre più spesso nelle aziende. Passione per la democrazia partecipativa? Magari... - Dietro l'abitudine alla "condivisione" compulsiva, si nasconde invece la più semplice ed umana delle emozioni: la paura di decidere. Decidere contiene in sè una minaccia ineludibile: quella d'errore, del ritrovarsi soli, magari anche incompresi. Perciò prevale la ricerca del consenso popolare a scapito di una capacità di sintesi che talvolta è necessaria, ovviamente con tutte le conseguenze del caso. L'imperatore e filosofo Marco Aurelio, esponente dello stoicismo insieme a Seneca ed Epitteto, era solito chiudersi nella sua tenda e annotare acuti pensieri sulla vita e la morte. Le sue medtiazioni sono una miniera inesauribile di saggezza; è lì tutta da prendere, se qualcuno ne avesse ancora voglia. Noi preferiamo invece passare il nostro tempo in fatue riunioni di "condivisione". Preferiamo le scorciatoie, perché viviamo in una cultura del "fast-thought", che non ammette il vuoto, la paura, l'incertezza. - Perché mai macerarsi con pensieri inquietanti e sentimenti indicibili? Non si addice ai tempi del mercato e della iper-competitività. Annacquiamo il processo decisionale, così nessuno si sentirà davvero mai responsabile fino in fondo di avere deciso. - Se l'azienda che dirigete fosse davvero vostra; se aveste piena consapevolezza che dalle vostre decisioni dipende cosa accadrà il mese prossimo, anche da un punto di vista finanziario; e se foste davvero consapevoli che democrazia significa decidere nel nome del bene comune e non pararsi invece il "lato B": allora appiccichereste sul vostro desktop queste parole: "Scava dentro. Dentro è la fonte del bene, fonte inesauribile, se ci scaverai sempre" (Marco Aurelio, settimo libro)
Il "confine relazionale" è una sorta di pelle psicologica che separa Me da Te. Siamo capaci di gestire in modo adeguato quanto succede lungo questa immaginaria frontiera? La risposta a questa domanda ci porta dritti al cuore di un tema assai dibattuto all'interno delle organizzazioni: l'impatto, cioè, del mio stile relazionale verso i colleghi di lavoro (oppure verso i fornitori e i clienti). - Per quanto sia utile comprendere che ciascuno di noi ha uno stile specifico per entrare in contatto con gli altri, spesso riconducibile ad un modello osservabile (pensiamo per esempio al modello degli "stili sociali"), è anche vero che al di sotto dello strato "superficiale" dei nostri comportamenti, si nascondono i nuclei più profondi della nostra personalità; quelli forgiati dalle nostre esperienze primarie di contatto con gli adulti significativi (genitori ed altre figure di riferimento), che sono particolarmente resistenti al cambiamento. Un esempio: alcune persone faticano a stabilire un contatto aperto e coinvolgente con i loro colleghi. Di solito queste persone sono percepite come fredde e distaccate e il passo verso un giudizio negativo nei lori riguardi è breve: "lui/lei se ne frega di noi". - Queste persone possono anche frequentare dei corsi di formazione il cui obiettivo sia quello di sviluppare una maggiore "flessibilità" relazionale; di sicuro, male non fanno; ma chiedere a questi percorsi di compiere un miracolo, sarebbe un'aspettativa del tutto fuorviante. - Quando vogliamo capire da cosa dipendono i nostri "blocchi" profondi, il lavoro si deve spostare necessariamente su un piano più personale (psicoterapia e counseling). D'altronde, che la strada del vero cambiamento implichi un lavoro più profondo, ce lo ricorda anche l'invito agostiniano a "guardarci dentro": Il tuo Maestro sta dentro...è dall'interno che ci si fa udire la Verità. (Ep. 139, 15) Siamo in costante "estroflessione", protesi verso il mondo esterno, fatalmente esposti ai flutti del destino. Dove pensiamo di trovare un saldo riparo dalle intemperie, se non dentro noi stessi? La guerra in Ucraina ripropone un tema essenziale per la pace tra i popoli, ossia il rispetto dei "confini" con i paesi confinanti. Dagli stati belligeranti alle relazioni interpersonali, il passo è breve: come dice la psicologia della Gestalt, non esiste un "Io" separato da un Noi. Siamo esseri in "relazione con", volenti o nolenti. E c'è sempre di mezzo un "confine" anche in questo caso. Perciò è fondamentale la consapevolezza di come viviamo il "contatto" con l'altro e la nostra capacità di stabilire i giusti "confini del contatto". Se una persona conosciuta da poco, mi tempesta di messaggi sul cellulare e pretende anche di ottenere subito una mia risposta, sarebbe normale sentirsi "invasi" dall'Altro. Da qui nasce una reazione dell'organismo (es. mancanza d'aria) e la conseguente decisione di ripristinare la giusta distanza. Similmente, viviamo questa dinamica sul luogo di lavoro, oppure in smartworking: "Quanta confidenza posso dare al mio responsabile? Quanta al mio collega, collaboratore, ecc.? (basta che non lo si chiami ancora "subordinato" oppure "dipendente"... parole da rottamare, giusto?). - Restiamo un attimo sulla relazione tra me e il mio responsabile.
Essere consapevole di ciò che sento e agisco, quando mi avvicino a te, è essenziale per stabilire tra di noi una relazione "sana", tanto nel lavoro quanto nella vita privata. ALBERTO AGNELLIConsulente di Sviluppo Organizzativo ed Analista Transazionale, Alberto supporta le persone, i gruppi e le aziende nel miglioramento del benessere personale ed organizzativo. Appassionato di Tango Argentino (si sussurra che sia insegnante) e del Total Immersion Swimming, vive a Milano ma si sente cittadino del mondo. Con E. Smith è fondatore di "Tango For Business". Prima o poi, ci rendiamo conto che volere sempre pianificare gli eventi della nostra vita, è soltanto un'illusione. Siamo culturalmente impreparati ad accogliere questa evidenza. Ci spaventa l'idea di essere cavalieri alla guida di un cavallo che può sbalzarci a terra da un momento all'altro. Eppure, se iniziassimo anche nelle organizzazioni a riflettere su alcuni princìpi che - ad esempio - il buddismo racconta in modo semplice e profondo, potremmo scoprire che possiamo "stare" ed abitare la complessità della vita attuale, sempre più segnata da un intenso ritmo di cambiamenti. Siamo bravi a descrivere il cambiamento, a concettualizzarlo in "formule" e modelli, specialmente se ci occupiamo di sviluppo organizzativo, coaching e "human resources". - L'acronimo VUCA ne è un esempio: volatilty, uncertainty, complexity, and ambiguity. VUCA significa che "là fuori non si capisce più nulla!". Tutto è diventato instabile e quindi bisogna partire da questo consapevolezza per gestire gli effetti di questo mondo "liquido", come diceva il sociologo polacco Zygmunt Bauman.
Se interiorizzo alcune scomode "verità" sulla mia vita -che i buddisti chiamano le "nobili verità"- allora diventa possibile attraversare pienamente il cambiamento, soprattutto quando è incessante e continuo. - "Todo cambia" - Mercedes Sosa "Cambia lo superficial Cambia también lo profundo Cambia el modo de pensar Cambia todo en este mundo" Buon ascolto Quando litighiamo con una persona, il nostro corpo subisce una vera e propria tempesta neuro-chimica, le cui tracce durano ore, se non addirittura giorni. - Il corpo, infatti, è una sorta di materasso "memory foam", che trattiene la tensione emotiva. Mal di testa, tensioni muscolari, bruxismo, respiro bloccato, gastrite sono spesso "segnali" di stress emotivo associati ad un conflitto non "risolto". - Se non possiamo "fare pace" con una persona, allora rimangono soltanto due strade:
Entrambe queste soluzioni richiedono un notevole impegno personale. Tuttavia i benefici psico-fisici derivanti da queste "pratiche" sono innegabili, soprattutto in considerazione del fatto che nulla può essere davvero superato in profondità, se non si "chiude" in modo giusto. Sappiamo dalle neuroscienze che sapere "fare pace", sciogliere i ricordi negativi e "andare avanti " sono azioni collegate all'area della corteccia insulare. - Non dobbiamo perciò essere necessariamente "buoni", per pensare ad una gestione "adulta" del conflitto. Si tratta innanzitutto del nostro benessere, del nostro "fegato". Esiste una "chimica delle parole" che spiega per quale motivo ci ricordiamo a lungo delle parole offensive, delle critiche corrosive oppure dei litigi finiti male. - Le parole negative ci rimangono appiccate addosso, come tanti post-it sul nostro cervello. La loro "colla" è molto resistente e noi iniziamo a rimuginare. "Non pensarci più!" "Ma lascia stare!" "Perchè te la prendi?" "Non abbassarti al loro livello..." Magari fosse così semplice: ci chiedono infatti di cancellare con un atto di volontà gli effetti generati dal cortisolo, una sostanza chiamata anche ormone dello stress. - Il cortisolo inibisce la "centrale del pensiero" e stimola una "tempesta chimica" che perdura per oltre 26 ore. Altri ricordi negativi del passato tornano a galla e amplifichiamo quanto è successo. I commenti e le conversazioni positive producono invece una sostanza chiamata ossitocina, detta anche "ormone del benessere", che stimola collaborazione, fiducia e migliora le nostre abilità comunicative. - Purtroppo per noi, gli effetti dell'ossitocina durano molto meno di quelli generati dal cortisolo.
Il rispetto dell'Altro è come un "fiore" davanti alle baionette acuminate dell'ingiura e del livore verbale: può cambiare la Storia. "Spazzatura dentro, spazzatura fuori", ossia: se introduco informazioni scadenti, otterrò risultati scadenti. E' un principio ben noto agli informatici e si applica a tantissime situazioni della nostra vita.
Se mi nutro di cibo buono, faccio buone letture, ascolto musica bella, contemplo la bellezza del cielo oppure di una chiesa romanica; se tratto bene il mio corpo; se amo gli animali e sorrido ai bambini; se abbraccio il prossimo con la stessa gentilezza con cui abbraccerei me stesso; se ogni giorno penso che l'Altro è simile a me, anche quando sbaglia; se penso che un giorno invecchierò anch'io e avrò intorno a me ciò che ho seminato, allora trasmetterò all'esterno inconsapevolmete un'energia travolgente che trasformerà il mondo. E il mio sorriso diventerà quello di Topo Gigo... ops, volevo dire Topo Gigio |
AUTORIAlberto Agnelli ArchivesCategories
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