Accumuliamo tante cose inutili nelle nostre case. Poi le spostiamo in cantina e nei solai. Dopo di che, quando lo spazio è saturo, arriva il momento di fare pulizia e andare in discarica. Di solito il giorno preferito è la Domenica. E il processo ricomincia daccapo. - Accumuliamo e svuotiamo. Gli accumulatori "seriali" si fissano sulla prima fase; quelli meno nevrotici riescono invece di tanto in tanto a "svuotare". Lo stesso meccanismo di accumulazione (in inglese: "cluttering") vale per le fotografie scattate con gli smartphone: "Ora che sono finite nella memoria virtuale, che te ne fai"? E i file che si accumulano esponenzialmente nel tuo pc? Tra copie generate da softare di "accumulazione seriale" (es. I Tunes per gli utenti Mac); periodici backup, perché il rischio di perdita è alto; e file "temporanei" (un altro mistero dell'informatica: se sono temporanei, perché vi ostinate a restare tra i piedi?) che si moltiplicano senza requie: ebbene, tutto sembra concorrere ad una crescente entropia del sistema. - Vestiti, scarpe, oggetti di pessimo gusto, regali inutili, appunti, copie di documenti fiscali (aspetta, quelli tienili, non si sa mai...): arriva il momento di doverli buttare via. Lo stesso processo vale per le questioni che ingolfano la nostra mente e la nostra anima. ⋆⋆⋆ "E come ci sentiamo dopo?" "Più leggeri, più puliti" "Ma stiamo parlando del decluttering?" "Sì. In inglese suona fighissimo. Ma tu chiamalo come vuoi. Ciò che conta è che hai raggiunto il punto di evacuazione..." "Punto di evacuazione? Quello indicato sui cartelli delle aziende per eventuali emergenze? "Anche. Ma non solo. C'è evacuazione ed evacuazione..." "Forse ho capito a cosa alludi. Ma non è molto "fine" come termine da usare su Linkedin!" "Allora chiamalo pure decluttering, se ti fa sentire meglio. Tanto il concetto è lo stesso...".
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"Bene, vi abbiamo presentato il progetto. E ora, qual è il prossimo passo?" "Adesso lo condividiamo internamente e poi ci risentiamo..." Questo il "refrain" che sentiamo sempre più spesso nelle aziende. Passione per la democrazia partecipativa? Magari... - Dietro l'abitudine alla "condivisione" compulsiva, si nasconde invece la più semplice ed umana delle emozioni: la paura di decidere. Decidere contiene in sè una minaccia ineludibile: quella d'errore, del ritrovarsi soli, magari anche incompresi. Perciò prevale la ricerca del consenso popolare a scapito di una capacità di sintesi che talvolta è necessaria, ovviamente con tutte le conseguenze del caso. L'imperatore e filosofo Marco Aurelio, esponente dello stoicismo insieme a Seneca ed Epitteto, era solito chiudersi nella sua tenda e annotare acuti pensieri sulla vita e la morte. Le sue medtiazioni sono una miniera inesauribile di saggezza; è lì tutta da prendere, se qualcuno ne avesse ancora voglia. Noi preferiamo invece passare il nostro tempo in fatue riunioni di "condivisione". Preferiamo le scorciatoie, perché viviamo in una cultura del "fast-thought", che non ammette il vuoto, la paura, l'incertezza. - Perché mai macerarsi con pensieri inquietanti e sentimenti indicibili? Non si addice ai tempi del mercato e della iper-competitività. Annacquiamo il processo decisionale, così nessuno si sentirà davvero mai responsabile fino in fondo di avere deciso. - Se l'azienda che dirigete fosse davvero vostra; se aveste piena consapevolezza che dalle vostre decisioni dipende cosa accadrà il mese prossimo, anche da un punto di vista finanziario; e se foste davvero consapevoli che democrazia significa decidere nel nome del bene comune e non pararsi invece il "lato B": allora appiccichereste sul vostro desktop queste parole: "Scava dentro. Dentro è la fonte del bene, fonte inesauribile, se ci scaverai sempre" (Marco Aurelio, settimo libro)
Il "confine relazionale" è una sorta di pelle psicologica che separa Me da Te. Siamo capaci di gestire in modo adeguato quanto succede lungo questa immaginaria frontiera? La risposta a questa domanda ci porta dritti al cuore di un tema assai dibattuto all'interno delle organizzazioni: l'impatto, cioè, del mio stile relazionale verso i colleghi di lavoro (oppure verso i fornitori e i clienti). - Per quanto sia utile comprendere che ciascuno di noi ha uno stile specifico per entrare in contatto con gli altri, spesso riconducibile ad un modello osservabile (pensiamo per esempio al modello degli "stili sociali"), è anche vero che al di sotto dello strato "superficiale" dei nostri comportamenti, si nascondono i nuclei più profondi della nostra personalità; quelli forgiati dalle nostre esperienze primarie di contatto con gli adulti significativi (genitori ed altre figure di riferimento), che sono particolarmente resistenti al cambiamento. Un esempio: alcune persone faticano a stabilire un contatto aperto e coinvolgente con i loro colleghi. Di solito queste persone sono percepite come fredde e distaccate e il passo verso un giudizio negativo nei lori riguardi è breve: "lui/lei se ne frega di noi". - Queste persone possono anche frequentare dei corsi di formazione il cui obiettivo sia quello di sviluppare una maggiore "flessibilità" relazionale; di sicuro, male non fanno; ma chiedere a questi percorsi di compiere un miracolo, sarebbe un'aspettativa del tutto fuorviante. - Quando vogliamo capire da cosa dipendono i nostri "blocchi" profondi, il lavoro si deve spostare necessariamente su un piano più personale (psicoterapia e counseling). D'altronde, che la strada del vero cambiamento implichi un lavoro più profondo, ce lo ricorda anche l'invito agostiniano a "guardarci dentro": Il tuo Maestro sta dentro...è dall'interno che ci si fa udire la Verità. (Ep. 139, 15) Siamo in costante "estroflessione", protesi verso il mondo esterno, fatalmente esposti ai flutti del destino. Dove pensiamo di trovare un saldo riparo dalle intemperie, se non dentro noi stessi? La guerra in Ucraina ripropone un tema essenziale per la pace tra i popoli, ossia il rispetto dei "confini" con i paesi confinanti. Dagli stati belligeranti alle relazioni interpersonali, il passo è breve: come dice la psicologia della Gestalt, non esiste un "Io" separato da un Noi. Siamo esseri in "relazione con", volenti o nolenti. E c'è sempre di mezzo un "confine" anche in questo caso. Perciò è fondamentale la consapevolezza di come viviamo il "contatto" con l'altro e la nostra capacità di stabilire i giusti "confini del contatto". Se una persona conosciuta da poco, mi tempesta di messaggi sul cellulare e pretende anche di ottenere subito una mia risposta, sarebbe normale sentirsi "invasi" dall'Altro. Da qui nasce una reazione dell'organismo (es. mancanza d'aria) e la conseguente decisione di ripristinare la giusta distanza. Similmente, viviamo questa dinamica sul luogo di lavoro, oppure in smartworking: "Quanta confidenza posso dare al mio responsabile? Quanta al mio collega, collaboratore, ecc.? (basta che non lo si chiami ancora "subordinato" oppure "dipendente"... parole da rottamare, giusto?). - Restiamo un attimo sulla relazione tra me e il mio responsabile.
Essere consapevole di ciò che sento e agisco, quando mi avvicino a te, è essenziale per stabilire tra di noi una relazione "sana", tanto nel lavoro quanto nella vita privata. ALBERTO AGNELLIConsulente di Sviluppo Organizzativo ed Analista Transazionale, Alberto supporta le persone, i gruppi e le aziende nel miglioramento del benessere personale ed organizzativo. Appassionato di Tango Argentino (si sussurra che sia insegnante) e del Total Immersion Swimming, vive a Milano ma si sente cittadino del mondo. Con E. Smith è fondatore di "Tango For Business". Prima o poi, ci rendiamo conto che volere sempre pianificare gli eventi della nostra vita, è soltanto un'illusione. Siamo culturalmente impreparati ad accogliere questa evidenza. Ci spaventa l'idea di essere cavalieri alla guida di un cavallo che può sbalzarci a terra da un momento all'altro. Eppure, se iniziassimo anche nelle organizzazioni a riflettere su alcuni princìpi che - ad esempio - il buddismo racconta in modo semplice e profondo, potremmo scoprire che possiamo "stare" ed abitare la complessità della vita attuale, sempre più segnata da un intenso ritmo di cambiamenti. Siamo bravi a descrivere il cambiamento, a concettualizzarlo in "formule" e modelli, specialmente se ci occupiamo di sviluppo organizzativo, coaching e "human resources". - L'acronimo VUCA ne è un esempio: volatilty, uncertainty, complexity, and ambiguity. VUCA significa che "là fuori non si capisce più nulla!". Tutto è diventato instabile e quindi bisogna partire da questo consapevolezza per gestire gli effetti di questo mondo "liquido", come diceva il sociologo polacco Zygmunt Bauman.
Se interiorizzo alcune scomode "verità" sulla mia vita -che i buddisti chiamano le "nobili verità"- allora diventa possibile attraversare pienamente il cambiamento, soprattutto quando è incessante e continuo. - "Todo cambia" - Mercedes Sosa "Cambia lo superficial Cambia también lo profundo Cambia el modo de pensar Cambia todo en este mundo" Buon ascolto Quando litighiamo con una persona, il nostro corpo subisce una vera e propria tempesta neuro-chimica, le cui tracce durano ore, se non addirittura giorni. - Il corpo, infatti, è una sorta di materasso "memory foam", che trattiene la tensione emotiva. Mal di testa, tensioni muscolari, bruxismo, respiro bloccato, gastrite sono spesso "segnali" di stress emotivo associati ad un conflitto non "risolto". - Se non possiamo "fare pace" con una persona, allora rimangono soltanto due strade:
Entrambe queste soluzioni richiedono un notevole impegno personale. Tuttavia i benefici psico-fisici derivanti da queste "pratiche" sono innegabili, soprattutto in considerazione del fatto che nulla può essere davvero superato in profondità, se non si "chiude" in modo giusto. Sappiamo dalle neuroscienze che sapere "fare pace", sciogliere i ricordi negativi e "andare avanti " sono azioni collegate all'area della corteccia insulare. - Non dobbiamo perciò essere necessariamente "buoni", per pensare ad una gestione "adulta" del conflitto. Si tratta innanzitutto del nostro benessere, del nostro "fegato". Esiste una "chimica delle parole" che spiega per quale motivo ci ricordiamo a lungo delle parole offensive, delle critiche corrosive oppure dei litigi finiti male. - Le parole negative ci rimangono appiccate addosso, come tanti post-it sul nostro cervello. La loro "colla" è molto resistente e noi iniziamo a rimuginare. "Non pensarci più!" "Ma lascia stare!" "Perchè te la prendi?" "Non abbassarti al loro livello..." Magari fosse così semplice: ci chiedono infatti di cancellare con un atto di volontà gli effetti generati dal cortisolo, una sostanza chiamata anche ormone dello stress. - Il cortisolo inibisce la "centrale del pensiero" e stimola una "tempesta chimica" che perdura per oltre 26 ore. Altri ricordi negativi del passato tornano a galla e amplifichiamo quanto è successo. I commenti e le conversazioni positive producono invece una sostanza chiamata ossitocina, detta anche "ormone del benessere", che stimola collaborazione, fiducia e migliora le nostre abilità comunicative. - Purtroppo per noi, gli effetti dell'ossitocina durano molto meno di quelli generati dal cortisolo.
Il rispetto dell'Altro è come un "fiore" davanti alle baionette acuminate dell'ingiura e del livore verbale: può cambiare la Storia. "Spazzatura dentro, spazzatura fuori", ossia: se introduco informazioni scadenti, otterrò risultati scadenti. E' un principio ben noto agli informatici e si applica a tantissime situazioni della nostra vita.
Se mi nutro di cibo buono, faccio buone letture, ascolto musica bella, contemplo la bellezza del cielo oppure di una chiesa romanica; se tratto bene il mio corpo; se amo gli animali e sorrido ai bambini; se abbraccio il prossimo con la stessa gentilezza con cui abbraccerei me stesso; se ogni giorno penso che l'Altro è simile a me, anche quando sbaglia; se penso che un giorno invecchierò anch'io e avrò intorno a me ciò che ho seminato, allora trasmetterò all'esterno inconsapevolmete un'energia travolgente che trasformerà il mondo. E il mio sorriso diventerà quello di Topo Gigo... ops, volevo dire Topo Gigio Se hai provato negli ultimi tempi una sensazione strana, che non si può chiamare nè tristezza nè abbassamento del tono dell'umore, ma a cui però non sai dare un nome, forse c'è una risposta. Questa strana sensazione è stata chiamata "languishing": manca lo slancio, la vitalità, la voglia di fare. Insomma, una condizione che a scuola avrebbero valutato da 6-. Vabbè, voi direte, è soltanto svogliatezza. Perchè scriverci sopra un post? - Il "languishing" è in realtà assenza di benessere, indifferenza, stagnazione. E' mancanza di gioia e di scopi. E' la pianta che appassisce lentamente per mancanza di nutrimento. Non sta vivendo bene, sta sopravvivendo. Sono gli effetti della pandemia, che ci ha sottratto la possibilità di pensare al futuro. Corey Keyes, sociologo e psicologo americano, da anni studioso della cosiddetta "psicologia positiva", con il termine "languishing" tratteggia un sentimento che è emerso da alcune sue ricerche e che potrebbe perdurare anche nel corso del 2022. Cosa fare? Keys ci offre alcuni spunti, che noi ci permettiamo di arricchire:
Riumanizzare la nostra vita e i luoghi di lavoro è la strada maestra per recuperare quella linfa vitale che la paura del contagio ha progressivamente ridotto. Sì, ma facciamolo davvero, forza! Invece no. C'è un virus che fa più danni del Covid: la povertà di spirito. "Sarebbero da fare fuori" "Chi nasce tondo, non può morire quadrato" "Sono morti che camminano" "Vogliono soltanto un aumento di stipendio" "Hanno ormai il cervello piallato" "Solo l'assunzione di giovani potrebbe cambiare la situazione" - Un'antologia di visioni del mondo che talvolta capita di incontrare nei corridoi delle aziende. - Convinzioni "ciniche" sulla natura dell'essere umano e più in generale sul potenziale di cambiamento delle organizzazioni. Nel tempo, queste "letture del mondo" diventano agenti patogeni che sviluppano un atteggiamento micidiale: l'idea che "noi siamo migliori degli altri". Migliori di questi colleghi, migliori dei clienti, migliori dei nostri fornitori, migliori della concorrenza. - Cosa fare?
"La gestione dell'impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera". Investire - aggiunge Benedetto XVI - ha sempre un significato morale oltre che economico. - Tutt'altra musica, vero?
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AUTORIAlberto Agnelli ArchivesCategories
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